*********************************************** ÉCOLE EUPOPÉENNE DE PSYCHANALYSE IL DIBATTITO DELLA SCUOLA-3 *********************************************** 10 DÉCEMBRE 1999 SUL VAMPIRISMO par Erminia Macola C'è un punto della lettera di Massimo Recalcati che non posso condividere perchè la mia esperienza è di tutt'altro tipo. Si tratta dell'"involontario vampirismo" dell'Istituto sui docenti. Io insegno da qualche anno all'Istituto perchè l'ho chiesto. Ero molto isolata a Padova dopo l'uscita di Perrella dalla Scuola; un gruppo con cui lavoravo da vari anni aveva scelto l'iniziativa di Perrella e mi trovavo da sola e senza investimento nella Scuola. Ho domandato ad Antonio di Ciaccia d'insegnare perchè l'ambiente mi piaceva, in quanto nell'insegnamento veniva messa in gioco una dimensione analitica. Questo faceva sì che non ci fossero più né, docente né allievi perchè si produceva un movimento a cui tutti partecipavamo e al tempo stesso lo generavano.Questa mi pareva la condizione favorevole perchè qualcosa si trasmettesse; la cosa non avviene mai unilateralmente. Provai a mettermi in gioco in prima persona e ritrovai un desiderio per la psicoanalisi e anche il coraggio di riaprire, insieme ad altri colleghi, l'insegnamento a Padova. L'Istituto mi ha dato un posto e come a me l'ha dato ad altri, in un momento in cui la Scuola non era in grado di darlo quasi a nessuno. L'hanno trovato anche quelli che si sentono vampirizzati, ma che, grazie a questo, hanno ora nuova forza per pensare a Una Scuola. Nel mio caso essere nell'Istituto ha voluto dire essere nella Scuola e passare attraverso l'Istituto creerà a Padova, me lo auguro, la possibilità che ci sia ancora la Scuola. *********************************************** 11 DÉCEMBRE 1999 TRA SCUOLA E ISTITUTO: QUALE INTERSEZIONE? par Licitra Carmelo Cari colleghi, vorrei anch'io apportare il mio contributo al dibattito in corso, sviluppando una rapida riflessione sul punto "rapporti Scuola-Istituto", oggetto di alcuni interventi -come quello di Recalcati- e anche di un breve scritto di Davanzo comparso sul n° 71 di Appunti. Rapporto che appare problematico in quanto le energie spese per il funzionamento dell'Istituto e delle Sezioni Cliniche sono ritenute penalizzare la promozione della Scuola, delle sue attività e della formazione clinica: Recalcati descrive tutto ciò con l'espressione "vampirismo involontario" (tuttavia poco prima nello stesso intervento si riconosce il ruolo di vivaio, di avamposto dell'Istituto rispetto alla Scuola e poco dopo si caldeggia un ripensamento dell'Istituto in funzione della Scuola sia pure con moduli di insegnamento e di dislocazione eventualmente rinnovati. Si delinea così un paradosso che sembra sfuggire a Recalcati). Mi pare che in tal modo si profili una logica dell'aut-aut laddove personalmente ho sempre considerato operante fra Scuola e Istituto una logica di integrazione e di compenetrazione: se è vera questa seconda prospettiva allora le energie profuse nelle Sezioni cliniche non sono disperse o sottratte ma costituiscono piuttosto potenziali investimenti per la Scuola. Da dove mi proviene questa convinzione? 1)Innanzitutto dalla mia esperienza personale di ex-allievo, per quel che può valere. Sono dapprima entrato (esattamente nel 1990) nella Scuola -di cui sono tuttora membro corrispondente- e poi dal 1994 ho frequentato il quadriennio dell'Istituto freudiano conseguendone il titolo finale: posso testimoniare che il vivere la Scuola e l'essere al contempo allievo dell'Istituto hanno convissuto pacificamente e anzi fruttuosamente. 2)In secondo luogo mi sembra che sia stato lo stesso Lacan a disegnare questo rapporto fra Scuola e Sezione Clinica nel Campo freudiano. A più riprese Jacques-Alain Miller nei suoi Seminari affronta la tematica del rapporto fra sapere esposto e sapere supposto. Mi limito semplicemente a riportare alcuni luminosi passaggi tratti dal suo Seminario "Della natura dei sembianti", alle pagine 108-109 de La Psicoanalisi n° 14: "...accanto ai gruppi e anche alle Scuole psicoanalitiche, sempre minate dal sembiante di sapere -non si può loro rimproverarglielo, è la disciplina che esige questo- occorrono dei luoghi in cui sia mantenuto uno sforzo per far passare il supposto all'esposto, con quello che ciò comporta di ripugnante per lo psicoanalista. E' in questo modo che io mi spiego d'altronde un certo numero di mie trasformazioni personali, l'animosità che ho suscitato da quando mi sono inserito in questo ambiente, presso un certo numero di esperti che circondavano il dottor Lacan. Occorre un luogo in cui il sapere esposto faccia barra sul sapere supposto, gli imponga la sua legge, anche se esso se ne nutre. In un certo senso c'è un pericolo. Quando Lacan ha inventato il suo concetto di Scuola, era proprio per superare la frattura che si era creata nell'Associazione Internazionale di Psicoanalisi fra la Società degli analisti e l'Istituto di formazione. Una Scuola, non un gruppo dove da un lato si saprebbe che cos'è un analista e dall'altro si elabora un sapere e si dà una formazione, ma un luogo in cui nel contempo si sa e si insegna e dove nel medesimo tempo, e soprattutto, non si sa che cos'è un analista e lo si cerca. Bisogna credere che questo non abbia funzionato tanto bene ed è in ogni modo così che io mi spiego il fatto che si sia ricostituito un binario. E' stata la necessità che ha condotto Lacan nel 1975 a rinnovare il Département de Psychanalyse, contro la maggioranza dei suoi allievi, e in seguito a volere un dottorato e infine a creare la Section clinique in cui noi ci troviamo. 1975, 1976, 1977: non è stato un capriccio. Se egli ha dovuto a quel tempo constatare che c'era bisogno di questo come stimolo per la sua Scuola, è perché egli la giudicava se posso dire un po' invecchiata, e sul molle origliere del supposto sapere bisognava forse mettere qualche pulce, stimolare un po' la bestia. Considerando che tutto questo era fondato nella struttura, io ne ho concluso che là dove i nostri colleghi non beneficiavano di un Dipartimento di Psicoanalisi, ebbene bisognava crearne uno. Ecco perchè con un certo numero di colleghi mi sono adoperato a creare altrove quello che mi sono divertito a chiamare Istituto, l'Istituto del Campo freudiano, che assolve la funzione di questo Dipartimento nei diversi paesi europei e in America del Sud. In fondo si tenta di impedire che il discorso analitico distrugga se stesso. Questo non vuol dire negare che occorrano delle Scuole, non vuol dire negare che oggi per gli psicoanalisti questa sia la forma di raggruppamento superiore, a cui aspirano un certo numero di gruppi vedendone la differenza". Molto cordialmente *********************************************** 11 DÉCEMBRE 1999 "DETONATORE" par Céline Menghi Il "detonatore"! A mia sorpresa, allora. Non mio malgrado, oggi - poiché tutti veniamo allo scoperto, parliamo fuori dai denti,i politici e i meno politici. Ci voleva pure uno "strumento" perché il primo intonasse la sua musica! C'è battaglia, a volte molto immaginaria,mi sembra, con le armi dell'invidia e della sfiducia, e, a volte, con toni da cortile. Sembra che la Scuola debba sorgere sulle basi -che dovrebbero poi tenere negli anni!- di una misurazione dell'uno con l'altro, della sfiducia, del chi è più bravo, della paura dell'altro dissimile, "straniero", mentre si predica che ci dovrebbe essere della mancanza, dell'Altro perforato, là dove vi sarebbe, invece, un Altro tutto pieno contornato dalle sue pecore stupide! Sento una sorta di abuso di questo significante Altro, dove non si sa più di che Altro si sta parlando, ma soprattutto da che posizione si parla di questo Altro. Ringrazio Massimo Recalcati per averci portato un po' fuori dal cortile, ponendo la questione della discontinuità in questo possibile passaggio a Scuola; per aver messo in gioco, quindi, qualcosa dell'ordine del reale, dell'inconscio. Vorrei ricordargli, tuttavia, che l'Istituto freudiano è una cosa e che la Scuola un'altra, anche se continuiamo a verificare -e le domande di passe all'entrata ne sono un esempio- quanto desiderio verso la Scuola maturi nel corso della formazione presso l'Istituto. Mi dispiace il termine "vampirismo" che tu usi, non mi suona giusto di tuo pugno. *********************************************** 12 DÉCEMBRE 1999 A MILANO, IL 18 DICEMBRE, VI ARRIVEREMO PIU LEGGERI! par Giuliana Grando - Al principio c'era il Papato, il Ducato, il Regno, e così via. Bassols li ha fatti entrare nel contenitore "Scuola" e JAM, con un leggero spostamento da "sulla" a "della", ci ha fatto sapere che la Scuola c'è già: possiamo parlarne. - Al principio c'era l'Istituto Freudiano - una contingenza (la legge Ossicini) diventata necessità - che ha unificato le diaspore allora esistenti in Italia formando un insieme: dapprima il Gruppo e poi la Sezione. - La Sezione è cresciuta grazie all'Istituto Freudiano che ha fatto da barra al desiderio puro che ci teneva segregati nei nostri studi. Con questa barra siamo andati sempre più all'esterno verso la Scuola, cercando di dire qualcosa che potesse essere trasmesso e, nello stesso tempo, desse la possibilità ad altri di portare la loro testimonianza e il loro sapere all'interno della Scuola. La costituzione dei Gruppi di coordinamento e ricerca del Campo freudiano - agili e vivaci - ha ulteriormente permesso il ritorno nella Scuola del lavoro rimosso e/o sommerso, svolto nelle istituzioni infantili, psichiatriche e delle dipendenze, (ora e prima ancora), dagli psicoanalisti lacaniani, portando in trasparenza le varie tecniche a cui la nostra etica e il nostro desiderio ci hanno "costretto". Questa è la Scuola della passe. - Un atto creativo è riconoscere la propria origine, ciò che ci ha fondati, e riconoscere il proprio lavoro e il proprio desiderio e il lavoro e il desiderio degli "altri", anche se quest'ultimo implica perdere qualcosa, sia esso un "ducato", "un regno", "una repubblica", "un papato" e così via. Il guadagno sarà sicuramente quel passo leggero del desiderio che consente di oltrepassare il confine. Giuliana Grando Ringrazio Carmelo Licitra Rosa per la citazione di Miller sulla funzione delle Sezioni cliniche e sul sapere supposto e esposto (non la conoscevo!) che ho letto dopo aver scritto questo e-mail. *********************************************** 12 DÉCEMBRE 1999 VOCI NELLA TORMENTA par Mario Binasco Credo che dobbiamo un attimo rinfrescarci le idee, anche nel senso proprio di riguardare le cose a mente un po' più fredda e con più tranquillità: infatti poichè vogliamo che questo sia un dibattito vero, è opportuno che ciascuno - sia che intervenga scrivendo oppure solo leggendo - vi partecipi potendo usare con calma la propria testa, la propria facoltà di giudizio radicata nella propria storia ed esperienza, le stesse che usava prima del lancio del "dibattito della Scuola" o della tormenta che si è scatenata dopo la ormai leggendaria "lettera a Rosy". Nella tormenta infatti si ha l'impressione che il mondo che prima ci stava intorno ora non ci sia più, che ci sia solo quello che ci entra negli occhi e diventa difficile giudicare senza lasciarci troppo confondere, specialmente quando la neve è fatta di voci, più o meno grosse. Mi conforta però ricordare Freud, quando dice che "la voce dell'intelletto è bassa, ma insiste finchè non ha ascolto". Voglio qui richiamare due punti che rischiano di sfuggire: 1- che la "lettera a Rosy" è essa stessa occasionata da messaggi di altri, da cui trae spunto per svolgere qualche commento parziale sulla situazione del legame nella Scuola. 2- che sono ormai anni che diciamo quotidianamente che siamo nella Scuola, che siamo responsabili della costruzione della Scuola, che affrontiamo i problemi della Scuola, ecc., e non si vede bene come e perchè l'avvento della Scuola Italiana dovrebbe farsi smentendo i suoi stessi passi e rompendo con gli atti che l'hanno preceduto e preparato. 1- Dò la mia lettura. M.Teresa Maiocchi è stata colpita nella sua affectio societatis per il legame di Scuola da un messaggio inviato pubblicamente in rete a Rosa Elena Manzetti: il messaggio in sostanza accusava quest'ultima proprio di aver mancato nei confronti del legame informando troppo tardi di un'iniziativa della comunità di lavoro di Torino. Ciò che colpi Maria Teresa fu la facilità con cui qualcuno poteva lanciare un'accusa personale pubblica a R.E.Manzetti/gruppo torinese senza neanche verificare se non si trattasse di una propria disinformazione. Scoperta la disinformazione, le scuse furono però inviate personalmente, e non con la stessa pubblicità delle accuse: segno che si voleva primariamente l'aspetto di denuncia pubblica. Si capisce che Maria Teresa Maiocchi non ha voluto lasciar passare questo come un banale episodio di leggerezza scorretta, tanto più che proveniva da un passeur, ma l'ha considerato un sintomo di una difficoltà del legame nella Scuola, pensando di averne dei buoni motivi. Alla mia lettura, allora non prevenuta o non oscurata dalle nubi della tormenta, appariva chiaro che "l'invidia" di cui si parlava era quella di M.T.Maiocchi nei confronti della comunità torinese, un modo pudico di dire la propria ammirazione e il proprio apprezzamento per il loro legame di lavoro e il dispiacere per non viverne uno simile. Le frasi che Maiocchi richiamava (quella sull'essere condannati a lavorare insieme/inferno e quella sull'hopital de jour) non erano sue, come lei stessa avvertiva, ma di nostri colleghi responsabili ai massimi livelli. Le frasi sul'inesistenza dell'Altro mi sembravano un iniziale e parziale tentativo di orientarsi in queste difficoltà, così come l'evocazione degli dei oscuri mi pare del tutto pertinente e adeguata ai rischi che il nostro secolo ha non soltanto corso, ma realizzato. Mi era comunque chiaro che l'obiettivo delle frasi sull'inesistenza dell'Altro non era la teorizzazione di Laurent/Miller, ma certe ricadute, modi degradati e criticabili in cui a volte sembra ripetuta e usata in Italia. Mi pare inutile e sciocco disprezzare le frasi di M.T.Maiocchi: se qualcuno sa fare di meglio non ha che da scriverlo (e in questo senso ho apprezzato l'intervento di Dominique Laurent). Ma, considerato tutto questo, c'era davvero materia sufficiente, valeva proprio la pena prendere questa lettera e diffonderla a più riprese, su sempre più liste internazionali, in italiano e in più traduzioni come se invece di essere la "lettera a Rosy" fosse la "stele di Rosetta"? come se pretendesse di essere l'evento teorico della fine millennio? Mah. 2- Credo che moltissimi in Italia pensassimo già anni fa di essere già entrati nella Scuola: specialmente a partire da quando passammo a Sezione Italiana dell'EEP e diventammo membri a pieno titolo anche dell'AMP, nella partecipazione alle Assemblee internazionali, e più ancora quando poi iniziò la pratica dell'entrata nella Scuola attraverso la passe. Senza contare quando J.A.Miller prospettò lui stesso un itinerario che avrebbe potuto condurre alla Scuola Italiana, indicandone addirittura la data possibile nell'anno 2000: itinerario che sembrò accelerarsi nella conversazione di Roma del giugno 1998, nella quale egli sembrò praticamente deciso ad operare il passaggio a Scuola italiana nel dicembre successivo, attraverso - mi sembra avesse detto qualcosa del genere - un semplice riutilizzo degli statuti esistenti con nomi cambiati. So bene che finchè un atto non è compiuto non è compiuto. Richiamo però queste cose per ricordarvi come fino a pochissimo tempo fa in Italia avessimo tutti l'aspettativa di questo compimento come imminente, e come ci pensassimo già impegnati in questo atto, nella traversata verso la sponda della Scuola italiana inserita nell'AMP. Perciò non risulta immediatamente evidente perchè - o se - o in che cosa - ci sbagliassimo in quella aspettativa. Mi sembrava importante richiamare sommessamente questi due punti. Per quanto riguarda invece una elaborazione più articolata e personale dei temi in gioco, prima di poterla svolgere per questa lista AMP-Corriere sono stato anticipato dalla lettera di JAM agli AME, lettera che chiedeva una risposta urgente: in questa risposta a JAM ho perciò versato le mie considerazion: JAM l'ha definita "una narrazione agostiniana" e non mi dispiace: ci terrei però a farla conoscere anche a tutti i colleghi di amp-corriere: perciò ve la accludo di seguito, avendone oscurato tutti i riferimenti inessenziali alle persone. *** Caro Jacques-Alain Miller e cari colleghi AME, è difficile infilare in una risposta come questa tutta una discussione che non siamo mai riusciti a fare e in modo argomentato, e che perciò ha potuto apparire solo in forma episodica di disagio: perciò cerco solo di dirne qualcosa, ma anche così devo chiedervi la pazienza di seguirmi un attimo in queste riflessioni molto personali. Bologna. - E' solo perché ne parla JAM nella sua lettera. La mia assenza il secondo giorno era annunciata da tempo, MM sa che per questo gli chiesi di fare il presidente di seduta e il discutant nel primo giorno: non rinunciai dunque alle responsabilità offertemi, segno mi pare di impegno leale nel portare il mio sostegno a quel momento della Scuola. L'intervento in assemblea, la non dialettizzabilità e l'amarezza: è vero, l'amarezza c'era, ma l'amarezza non è un'offesa per nessuno: l'amarezza è un affetto e dunque una traccia di come ci si trova toccati nel corpo da una situazione: sappiamo come analisti che anche con gli affetti si tratta di 'dire bene': e il mio tentativo di 'bien dire' un aspetto per me inquietante o problematico della situazione della Scuola, vissuto anche sulla mia pelle, è stato quello di invitare gli altri a spiegare lo scarso desiderio di candidarsi alle varie responsabilità. Non so quanto 'bene' sia stato detto o fatto: ma credo senz'altro meglio che se avessi taciuto: d'altronde non era quella un'assemblea della Scuola? Anche qui, sinceramente, vedo solo passione per la Scuola/della Scuola: diversamente come dovrebbe fare uno animato da passione della/per la Scuola? Spero che non fatichiamo troppo a distinguere tra il parlare di qualche male della Scuola e il parlare male della Scuola: come l'analisi ci insegna si tratta di 'dire bene' anche i mali - che ogni storia umana rischia ad ogni passo: ma per 'dir bene' bisogna pur dire. Quanto al carattere 'non dialettizzabile' che JAM ha creduto di scorgervi, vi invito sommessamente a considerare che c'è un modo sicuro e facile per rendere non-dialettizzabile ogni dire, ed è quello di non prenderlo mai in considerazione, o non dargli luogo ed occasione di esprimersi, o rinviarlo al mittente. E se quel giorno - come gli sembra - ha notato questo tratto, credo che fosse semplicemente la traccia di precedenti insuccessi e guai nel parlare di quei temi. Parlarne che era iniziato il gennaio del 97 nel rapporto richiestomi (come Presidente SISEP) dal Consiglio EEP sul 'disagio nella Scuola', compito che avevo ancora svolto lealmente e volentieri, con osservazioni sul problema Scuola-Istituto ecc. Qualcuno di voi mi disse privatamente che ero stato coraggioso a dire quelle cose: io avevo semplicemente tentato una diagnosi di quel disagio a partire dalla mia esperienza e dalla mia posizione: ma la cosa non ebbe seguito nella Scuola (tranne che non portò bene a me). "Pas toi". - Jacques-Alain ricorderà certamente la lettera che gli scrissi quando lui propose la Scuola (EEP) in Italia, perché lui stesso allora la menzionò in pubblico: gli dissi che aspettavo da anni un gesto e una possibilità come quella che lui allora offriva, e precisamente perché in Italia potesse avvenire un salto di qualità nel mettere in rapporto e insieme in una dimora comune diverse esperienze e percorsi psicoanalitici: egli sa anche il grado di collaborazione e di impegno che misi in quest'impresa e proprio nella sua prospettiva di insieme, del tutto aldilà dei particolarismi e personalismi, aiutandolo nel superamento dei 'gruppi'. Fui colpito dalla decisione e dalla forza con la quale egli sostenne questo criterio: "un responsabile della Scuola non può dire 'pas toi' a nessuno" (come mi disse), come metodo di un legame di Scuola non basato sull'esclusione ma aperto a chiunque, e lui (con molti tra voi) sa come io stesso mi impegnai secondo questo criterio per favorire la sua azione. E' per questo stesso criterio che quando sento toni o pronunciamenti che mi paiono orientati proprio a qualche forma di "pas toi", quando sento parlare di guerre, di 'bagni di sangue', di 'teste che cadono', di schieramenti bellici, resto perplesso perché avverto ciò come in contraddizione col criterio suddetto, e mi chiedo come possa entrarci questo tipo di guerra col legame che la Scuola - psicoanalitica - di Lacan tenta di creare: la psicoanalisi sarebbe una faccenda di morti e feriti, e di calcolabilità delle perdite? Mah. (Perfino Lacan, quando ritenne che la sua Scuola non andasse più, non 'perse' nessuno, non tagliò via le parti malate, ma si tolse lui da essa sciogliendola, provando così che era lui l'anello che la teneva assieme). Ho l'impressione che una Scuola analitica non può funzionare in questo tipo di esclusione senza degradarsi, e io questo degrado non lo auspico proprio. Gli AME. - Quello che mi interessava e mi incuriosiva fortemente all'epoca era se la Scuola avrebbe deciso o meno di riconoscere secondo questa modalità la storia analitica italiana che la precedeva, e in che maniera lo avrebbe fatto. Indipendentemente dalle persone ritenevo che fosse importante per una Scuola di psicoanalisi poter attribuire dei titoli analitici superata una prima fase di decollo dell'insieme, mi pareva importante proprio per la consistenza istituzionale della Scuola. Anch'io, come credo voi, non ho personalmente domandato né mitizzato nulla : mi bastava che già Lacan avesse parlato nella Lettera agli italiani di "chiffre ironique" a proposito dell'AME. Ritenni perciò inquietante - sempre per la Scuola - che appena compiuto l'atto di nomina di alcuni (pochi, tanti, giusti, sbagliati...) ad AME, XX* iniziasse a criticare questo atto pubblicamente a ***: mi parve una zappa sui piedi della Scuola notevole, ben oltre i discrediti personali che ovviamente anche così si diffondevano. Questa... avversione? Disprezzo? O che altro? Che si ripresenta ora - almeno così mi pare di leggere, se sbaglio scusatemi - nella sua lettera di risposta, finisce secondo me paradossalmente proprio a circonfondere il titolo di AME di arie di pretesa (che in Lacan non ha mai avuto) - e in particolare, chissà perché, quando a riceverlo sono gli "AME italiani". Personalmente posso dire di non ritenere di avere un essere speciale come analista riconosciuto AME: penso sempre di più che quella di analista sia una funzione difficile tanto quanto appassionante, piena di rischi e responsabilità che una volta vedevo di meno, cui non soccorre alcuna 'sufficienza': e considero questo per me un progresso analitico. Creatura e creatore. - XX* fa una citazione che lui stesso definisce 'terribile', nella quale sembra riecheggiare il linguaggio dell'esclusione finale: "So le tue opere. Che non sei né freddo né caldo. Fossi tu freddo o caldo! Così, poiché sei tiepido, cioè né caldo né freddo, io ti vomiterò dalla mia bocca" (Apocalisse, 3, 15-16) - mentre in altri interventi nel dibattito di questi giorni si parla di creazione: mi sembrano entrambi riferimenti pertinenti. La citazione che XX* fa risuonare si enuncia dalla bocca del (ri)creatore, un posto da far tremare le vene e i polsi, e del quale possiamo ben chiederci chi possa pensare di identificarsi con esso o di installarvisi stabilmente e non solo nell'istantaneità del discorso analitico, come l'atto dell'analista effettivamente può comportare. Estrarlo dall'istante dell'analisi e proiettarlo su tutto l'insieme dei legami istituzionali, senza prestare la dovuta attenzione al fatto che non siamo alla fine dei tempi, non comporta qualche inconveniente? In fondo lo stesso che dice "ti vomiterò", aveva prima invitato a non affannarsi a strappare via la zizzania dal grano. E aveva anche detto: "date a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio": ma come? Che cosa c'entra Cesare nel momento della scelta per Dio? Anche lui dunque sarebbe un cultore delle mezze misure, del compromesso, della tiepidezza vomitevole? Evidentemente un conto è la fine dei tempi, un conto la vita nei tempi insieme agli altri: in quest'ultima allora forse Cesare diventa un limite alla deriva integralistica e moralistica sempre possibile a chi "affronta la verità" a questo livello: solo però se Cesare e Dio non sono la stessa persona. E forse è proprio perché Lacan rifiuta di fare della psicoanalisi una forma di moralismo e di integralismo (senza beninteso cedere sul desiderio) che pone due tipi di titoli analitici, ovviamente non equivalenti, sono ben d'accordo. Spero che sia ben chiaro che non considero per nulla spostata l'evocazione scritturale di XX*: basterebbe la citazione del Giudizio finale nel Seminario sull'Etica per confermare che siamo al livello delle questioni essenziali anche per la psicoanalisi. Quando si tratta di creazione, specialmente di creazione di un insieme umano, la questione più interessante mi pare quella del tipo di legame che si stabilisce tra la creatura e il creatore e le altre creature - nel nostro linguaggio la questione dei legami di Scuola. La psicoanalisi ha risollevato queste questioni nel tempo della modernità, a partire cioè dalla morte di Dio. Dio è morto: qualcosa può venire al suo posto? Oppure: si tratta di sostituirlo? E la psicoanalisi che posizione prende in questo? Io credo che debba essere criticamente in guardia rispetto ad ogni sostituzione: altrimenti qui varrebbe il vecchio adagio commerciale: "diffidate delle imitazioni, scegliete l'originale". Mi è abbastanza familiare la questione della dipendenza creaturale, della non autosufficienza, del fatto di ricevere l'essere dall'istanza creatrice: ma l'ho sempre trovato, o se volete, usato come fattore di libertà. (Du pere s'en passer à condition ecc.. Oppure, come mi viene incontro proprio ora il contributo di D.Laurent, un uso pragmatico del significante padrone). Ho sempre ammirato grandemente - e continuo ad ammirare - Jacques-Alain Miller, non solo per il suo talento, ma proprio per il coraggio dell'affrontare e misurarsi con questo posto e con questa funzione, insieme con "quelli che associa a se' in un'opera umana"(Lacan), l'opera della psicoanalisi nella Scuola., anche su scala mondiale: non ho niente contro questo, e la mia idea dell'impero è molto più vicina a quella che ne aveva Dante che non ai film di Guerre Stellari. La vera grandezza (e la difficoltà) di questa funzione per me si misura anche dal conto che fa delle persone che associa: proprio perché credo di avere un'idea non folle della dipendenza, non posso considerare che le persone - tra le quali mi annovero - possano non contare, non essere fattori reali dell'insieme, non siano essenziali e proprio nella loro singolarità, che siano banalmente fungibili, sostituibili, perché il creatore ad ogni momento potrebbe dire "io posso trarre figli di Abramo anche dalle pietre". Nella Scrittura il creatore non toglie l'essere alla creatura, si prende la briga di andarle dietro nelle sue erranze, non è mai lui a rompere con essa: nella follia cristiana è poi il creatore stesso a pagare di persona per mantenere il legame con noi.. Nella terribile citazione di XX*, chi parla, parla così proprio perché ha pagato di persona. E nella tradizione ebraica chassidica il Kotzer Rebbe arriva a questo rovesciamento: "Se tu non aiuti il tuo popolo non sarai più il nostro Dio". Infatti le cose non vanno a senso unico: ricordiamo che Lacan nella Proposition dice che "all'inizio della psicoanalisi è il transfert...Lo è per la grazia dell'analizzante...": Lacan usa non a caso la parola grazia, presa dal linguaggio religioso da cui sto ampiamente prendendo spunto, e dice che questa grazia non viene dall'analista, ma dall'analizzante. Quanto più è alta la scommessa di un impresa che associa esseri umani, tanto più si ha la responsabilità di vegliare a che non si trasformi in un inferno: non c'è niente di strano o di scandaloso, è talmente normale: stiamo uscendo (?) da un secolo che ha fatto la sua parte nel mostrarcene le varianti segregative: il rischio dell'inferno accompagna fedelmente la responsabilità degli insiemi umani (ancora Dante, se si vuole). Si può collocare qui la famosa frase "siete condannati a lavorare insieme" che mi fu detta tempo fa, come qualcuno ricorderà. All'inferno, proprio parlando degli analisti, Lacan opponeva: "In più santi si è, più si ride" (Television). Ecco perché ho potuto usare anche la misura (scarsina) del riso che notavo in giro come criterio diagnostico per il nostro insieme, tutto qui. Aggiungo un'ultima confidenza personale: sulla questione dell'inferno divenne utile per me una frase dettami anni fa e attribuita a Silvano del Monte Athos: "Tienti consapevolmente nell'inferno e non disperare": è chiaro a chiunque che praticarla, tanto più in campo analitico, presuppone un desiderio. Con cordialità